Vado a vedere quali sono i miei piaceri e capisco meglio chi sono. La parola ho cominciato a praticarla come attività fisica, la frequentavo per non finire in carcere e per avere amplessi più assortiti. Un modo di tenere cucita la vita. Una ginnastica mentale che si nutre di nessi associativi. Quella bellezza unita all’incertezza, che la rende qualcosa di meno meccanico e di più umano. I poveri sono matti, diceva Zavattini. Anche chi scrive, vorrei aggiungere. Quella forma di militanza che ti porta a scegliere un incedere sobrio, rude, scoraggiante…
Cerco di estraniarmi dagli enigmi pur essendoci dentro. A poco a poco le bocche si avvicinano. Il vento si risveglia e apre le strade alla notte che si accende. Nuda. Il chiarore sale per avviluppare il rumore dei corpi che si sollevano. Gli anagrammi gradiscono la fantasia. Il pennarello consente di scrivere stando a letto ai solutori più che abili. Non c’è un solo modo di abbinare il senso. Ma anche un altro, il tuo. Non conosco il tuo nome. Del resto non voglio conoscerlo, mai…
Sei un mistero con gli occhi azzurri. Che cerchi il modo di non divenire “maniera”. Con quel briciolo di pazzia vissuta nel tentativo di mettere in discussione quella che l’economista John Kenneth Galbraith chiamava “saggezza convenzionale” e che definiva come “tendenza fisiologica dell’uomo ad associare la verità alla convenienza, ossia con quanto non disturba il proprio interesse, il proprio benessere, il proprio comodo”…
Penso che la parola è politica, forse anche suo malgrado. Senza sapere di esserlo. Perché ha la grande qualità, come la musica, di entrarti nel corpo. E ti lascia il compito, e la responsabilità, di percorrerla in tutta la sua lunghezza per farla diventare qualcosa. Una regione fertile e ridente che serve anche a comportarsi meglio. Che riesce a parlare di noi raccontando, in fondo, sempre e solo di sé. Sta nella facilità, nella naturalezza quasi, con cui l’autobiografia diventa biografia collettiva. Nell’immediatezza in cui l’io si fa noi, e diventa esperienza condivisa…